Quarantena.
Per la prima volta nella mia vita assaporo il termine, me lo rigiro, lo gusto in ogni sua estensione.
Sono in piedi davanti al mobiletto più alto dove vi ho posato un libro aperto, lo sfoglio distrattamente senza vedere nulla se non numeri e calcoli.
S’intende, di certo, non quelli dei media e delle TV là fuori.
Chissà quante calorie non sto bruciando.
Sono sola, in casa con i miei genitori che si affannano per fingersi medici: l’inconveniente più grave portato da questa situazione pare essere per loro il fatto di dovermi gestire in casa.
S’improvvisano dietisti, dottori, psicologi: le loro gaffe più eclatanti non si contano mentre cercano disperatamente di assumere il controllo su di me e sulla mia alimentazione.
Ed io in tutto questo mi angoscio per ogni briciola in più che mangio: sono rinchiusa in una stanza da una settimana e la bilancia mi chiama a gran voce da sotto il letto.
Vorrei solo potermi muovere – poter bruciare. A stento riesco a star ferma senza iniziare a passeggiare o senza fare esercizi qui in stanza: dal piano di sotto posso quasi sentire mia madre porgere l’orecchio attento ad ogni mio movimento e al primo scricchiolio del parquet me la immagino già qui, con in mano un piatto colmo e sulle labbra una minaccia.
È in ogni dove l’imbarazzo per avermi qui e non sapere “come usarmi” come se fossi una sorta di elettrodomestico nuovo senza istruzioni, col quale si fa qualche tentativo, si riprova, e poi semplicemente si lascia stare.
È in ogni dove, l’intralcio di avere un giorno ingombrante: il fiocchetto lilla, di cui si parla tanto, qui dentro non è arrivato. Sono sola, ignorata, incompresa – trattata come una malattia, e di questi tempi le malattie non le si vuole in casa.
Anche questa, ho idea, è una conseguenza della quarantena.
Un pensiero che mi ha occupato la mente in questi giorni è stato volto a tutte le persone che soffrono di Disturbi dell’Alimentazione.
In una situazione in cui si è confinati in casa, gli spazi personali ne risentono: vengono compressi, schiacciati, a volte violati.
Analogamente lo spazio occupato dalla malattia viene percepito in modo più forte, più netto: a stretto contatto con i familiari o con i coinquilini, tanti meccanismi di compensazione non possono essere attuati e la malattia – per assurdo – si scontra con un altro tipo di malattia.
A vederle vicine non sembrano nemmeno paragonabili: quella fuori dalle nostre case sembra una malattia terribile, ci spaventa, ci fa avere paura degli altri, ci confina in casa. Mentre quella dentro le mura di casa ci sembra in confronto una bazzecola: un capriccio, una paturnia insensata.
Sembra un controsenso, ma troppe volte è così: razionalmente concordiamo nel dire che non vi sono malattie di second’ordine, ma allo stesso tempo le cataloghiamo secondo un metro impreciso che dipende strettamente dal nostro vissuto e dalle nostre paure. Un malato di Covid-19 ha diritto di essere curato e di avere dei medici competenti a seguirlo, di contro una persona che soffre di disturbi alimentari può essere lasciata a casa, senza alcun aiuto professionale.
Ci fa arrabbiare che non ci siano posti a sufficienza per tutte le persone che necessitano della terapia intensiva: qualcuno pensa a quante persone aspettano un posto in qualche ricovero, vedendo il peso calare a picco?
Siamo noi: noi che pretendiamo un vaccino ma non un sostegno per chi soffre di Dca. Siamo noi, noi che vogliamo risultati immediati e sempre noi siamo indifferenti a chi dopo anni e anni lotta ancora contro l’anoressia, la bulimia…
Siamo noi, che discriminiamo. Siamo tutti uguali di fronte alla malattia e al dolore da essa causato. Siamo noi, che di fronte ad un virus e di fronte ad un piatto lasciato pieno ci comportiamo in modo diverso – se l’uno ci fa paura, l’altro ci dà fastidio. Se l’uno richiede cure immediate, l’altro cosa richiede? Un po’ di polso?
Questo 15 marzo ci ha colti in uno scenario surreale, difficile, angosciante per tutti.
Nessuno escluso: tutti abbiamo diritto di avere chi si prende cura di noi, per poter davvero pensare che andrà tutto bene.
Di qui l’importanza assoluta, imperativa, di avere chi possa aiutare – anche a distanza, con una chat, una telefonata – le persone che soffrono di Disturbi Alimentari e permettere così ai familiari e alle persone che stanno loro vicino di poter avere più ampio respiro, di poter essere aiutati a loro volta, perché nessuno debba minacciare con un piatto colmo, perché nessuno si trovi a dover assumere ruoli non propri. Per dare più speranza a tutti, nessuno escluso.
Marianna Lebosi