Una ragazza (Giulia)
15 marzo 2016
Non dovrebbe esserci un’unica giornata per ricordare quanto le persone soffrono .
Si soffre ogni giorno , per chi ha un demone dentro non è importante una data. Sopravvivendo, non si sa nemmeno che giorno sia, non è importante.
L’importante, il fondamentale, è il conteggio, le corse in bagno, i sensi di colpa , le disperazioni post-cibo, il sonno indotto dalla depressione.
Mi è stato detto dagli altri di dimagrire un po’ , la mia morbidezza non era giusta.
Mi è stato detto dagli altri che sono brutta.
Mi è stato detto molte volte.
Sono stata esclusa dai giochi in cortile a scuola, dai pettegolezzi con le altre bambine, dalle uscite al cinema.
Mi è stato chiesto perché non parlo.
Perché non sorrido.
Perché non esco fuori.
Come posso parlare se nessuno mi risponde , sorridere se la gente sta deridendo me, uscire se non sono ben accetta, o peggio, indifferente?
Ma soprattutto come posso parlare, sorridere e uscire se l’unica cosa che hanno fatto sì che pensassi, e che io ho fatto mia nel profondo, è che l’unica cosa che merito nella mia vita, è la fine di essa?
Le persone sono incattivite e marciano sulla tua sofferenza, perché oramai sono marce dentro.
Ma poi arrivano Persone che ti obbligano ad abbracciare, perché ormai ogni contatto fisico di tipo umano ti terrorizza.
Ti sembrerà una violenza, una cattiveria anche quella, penserai che le persone sono fatte così, nessuno vorrebbe mai la tua felicitá, non sai nemmeno cosa significhi essere felice e stare bene, non ti è stato permesso di conoscere e provare questi stati interni mistici.
Alcune Persone ti daranno farmaci.
Penserai che vogliono farti ingrassare, per prenderti ancora più di mira, per aiutare gli altri ad avere un ulteriore motivo per deriderti.
Ci saranno Persone che ti faranno fare ciò che al solo pensarci ti fa sbarrare gli occhi cercando una via di fuga; ti obbligheranno a sederti ad un tavolo e nutrirti insieme a sconosciuti.
Eresia, mangiare, quindi mostrare le mie debolezze, di fronte a chi potrebbe usare queste come arma nei miei confronti, ancora?
Esiste questo piccolo numero di persone che ti vorrà bene, a priori, perché sei una persona, perché il cuore ti batte ancora anche se i tuoi sentimenti sono atrofizzati.
Non sarai mai un caso perso per loro, anche se a te piace pensare il contrario.
E alcuni degli sconosciuti con cui mangerai e convivrai per un po’, diventeranno una cosa strana e bizzarra, non saprai nemmeno come definirla, ma quando capirai, giuro che ti sembrerà un sogno, perché da sconosciuti, loro saranno Amici.
E gli vorrai bene, tanto bene.
Riderai, piangerai, urlerai con loro.
Ma anche quando le vostre strade si divideranno, e loro ti mancheranno a tal punto da pensare che la vita vuole solo la tua sofferenza, sarà lì che forse capirai che la tua così colpevolizzata esistenza, voleva ridonarti la capacità di amare.
E le persone a cui hai voluto bene e ti hanno voluto bene, entrambi a conoscenza del poco tempo concesso, le porterai dentro e userai l’affetto ricevuto, verso altri sconosciuti.
Chissà, forse vivere non è così tremendo.
“Tu sei più di quello che mangi”
“Tu non sei la tua malattia, non sei anoressica, obesa o bulimica, tu sei una persona che soffre di questo.
Non identificarti con il tuo dolore, perché tu non sei un disturbo, sei una persona”
Vi porterò ovunque, compagne e compagni di viaggio.
Ancora Giulia
15 marzo 2017
Forse oggi ricordo, forse domani dimenticheró.
Desideravo.
Volevo un’anima pulita, senza graffi, insulti e derisioni.
Volevo un corpo vuoto, una linea retta che puntasse al cielo, forse è lí che aspiravo ad arrivare.
Desideravo.
Chiedevo a Dio di prendermi con se.
Piangevo senza motivo.
Ma un motivo c’era.
I motivi, c’erano.
I motivi ci sono, e ci saranno anche domani.
Desideravo.
Tagli, scarti, vendette, bruciature, repulsioni, ricatti, pugni nello stomaco.
Per esistere.
Per non esistere.
Per la rabbia di esserci ancora e per il dubbio di poterlo pensare anche domani.
Quanti digiuni. Quante abbuffate. Quanti tentativi di vomito mai riusciti.
Il dolore di un’azione.
O di una non azione.
Quante architetture nel cibo.
Quanta sofferenza nel cibo.
Quanto amore nel cibo.
Domani. Dopo. Tra poco. Adesso.
Rimandando, il momento è giunto ed io, pur non essendo pronta, lo sono stata.
Il corpo ha deciso. Per me. Tra sconforto e delusione, le mie mani, senza la mia mente, hanno ripreso le redini e mi hanno portato in un posto vecchio, che avevo già abitato, ma che, in fin dei conti, era nuovo.
Benché io fossi ancora diversa, ammaccata, triste e sola, sono arrivata a pensare che ce la facevo. Per una volta forse ce la fai, mia Giulia.
Tutto passa?
Tutto è passato, o quasi.
Ogni mattina, appena sveglia e a stomaco vuoto, fumo una sigaretta.
Per sentire ed ascoltare la nostalgica sensazione dell’anoressia.
Di nuovo Giulia
15 marzo 2018
Non comincerò con lo scrivere il numero che vedevo sulla bilancia o il numero di ricoveri fatti.
Non è rilevante per chi conosce il problema e farebbe solo male a chi lo sta vivendo o chi lo ha vissuto.
Non metterò foto del prima e del dopo, così per mostrare a tutti la mia ex dipendenza dal cibo a confronto a quanto sono figa adesso.
Sinceramente non ho nemmeno foto troppo nitide di quel periodo.
Oggi mi sono svegliata pensando “oh no è di nuovo il 15 marzo, ora mi tocca scrivere qualcosa, che palle”.
In realtà non è un obbligo ma penso di doverlo a colei che avevo dentro di me, che mi comandava, facendomi credere di esserci io al comando, invece.
E vabbè cara amicona grazie di avermi fatto crescere tra le tue braccia e di avermi lasciato andare nel momento più opportuno.
Se stai leggendo questo volevo dirti che adesso sto bene, abbastanza bene dai.
Ti ho dimenticata, o meglio, mi sono dimenticata com’è essere svegliata da te la mattina e essere cullata da te prima di dormire.
Ma ho altro adesso.
Quindi grazie e ciao.
Ed è giusto ciò che dicono alcuni, cioè che dovremmo ricordare i disturbi alimentari non solo in un certo giorno dell’anno. Ma tranquilli che chi sta vivendo o ha vissuto questo inferno non se lo ricorda solo oggi.
Io mi sono salvata.
E ho capito che ciò che salva è l’amore, perciò, come diceva qualcuno,
“Se nulla ci salva dalla morte che almeno l’amore ci salvi la vita.”
Sempre Giulia
15 marzo 2019
Oggi è la giornata contro i disturbi del comportamento alimentare, e ok, dovrei scrivere qualcosa.
Dovrei scrivere qualcosa? (Il “dover” fare riguardo questo argomento mi sta già un po’ stretto).
Non ne avrei voglia, non ne ho voglia ed avevo deciso di non scrivere un bel niente, però poi vedo vecchie conoscenze che scrivono, postano, si aprono, riguardo al loro vecchio o attuale problema (per la maggior parte delle persone, è un problema che riguarda il passato, anche perché chi avrebbe mai voglia di mettersi lì, impegnarsi ed impegnare del tempo, per denigrare e trasmettere l’odio verso il loro attuale più grande amore? Ma questa è solo una parentesi).
Comunque, leggo cose profonde e toccanti di gente che, subito dopo il “racconto”, rovinano tutto l’impegno messo per scrivere belle frasi e concetti, allegando una o più foto.
E che foto.
Foto di quando stavano male, di quando erano magre fino all’osso, di quando avevano un’espressione spezzata dal dolore.
Ora io penso, se scriviamo ed urliamo l’odio per questa malattia, per questo mostro che ci ha tolto gran parte di noi, che ci ha mangiato l’anima, che senso ha pubblicarne il risultato?
Forse nostalgia?
Forse.esibizionismo?
E dai gente, lo sappiamo tutti quanto era brutto essere malati.
Così come sappiamo bene quanto era bello.
( Si, forse è un messaggio sbagliatissimo, ma che ci vogliamo fare, è la realtà.).
Altrimenti perché pubblicizzare una foto di tale dolore fisico e mentale?
Perché in fondo, stavolta parlo per me, manca sentirsi qualcuno, manca avere quell’etichetta che pochi possono permettersi di avere, perché ci vuole forza, determinazione ed impegno per non mangiare.
A volte invidio me stessa, me stessa di qualche anno fa.
Perché adesso mi sento più debole.
Oggi sono umana, a quel tempo non lo ero, ero disumana in un certo senso. E non è piacevole confondersi nella folla.
Però, al di là di tutto questo, la mia vita di oggi, non la sostituirei con la mia sopravvivenza del passato.
“Tu prova, se quello che c’è fuori non ti piace, torna indietro.”
Mi dicevano e mi sono detta molte volte.
Io ho provato, qualche volta non mi è piaciuto per niente l’esterno della gabbia che mi ero creata, e sono tornata dentro.
Una volta però mi è piaciuto, e parecchio.
E non sono più voluta tornare prigioniera.
Ed oggi mi sento un po’ più libera e, nonostante alti e bassi, non pubblico foto di com’ero, anche perché non le ho.
Sebastiano
E’ soltanto a ventidue anni, dopo la mia guarigione, che ho scoperto quale beatitudine ci sia nell’avere occhi: fin da piccolo ho sempre vissuto attraverso lo sguardo degli altri e del loro giudizio, cercando di adattarmi alle aspettative che mi erano imposte.
Seppure non sia trascorso molto tempo, ho perso svariati pezzi del mio passato. Volevo dimenticare tutto il dolore sentito, provare a convincermi di avere avuto anche io un adolescenza libera e genuina, proprio come quella che vedevo vivere ogni giorno dai miei coetanei attraverso la finestra di uno dei tanti ospedali in cui ho soggiornato. C’è una cosa, tra le tante, che però non dimenticherò mai: quel senso di solitudine che mi ha seguito nel corso degli anni. A scuola ero escluso e deriso, vittima del bullismo dei compagni di classe. Ero grassottello, leggevo tantissimo e amavo scrivere, questo bastava per essere considerato diverso. Soffrivo molto. Provavo a capire, ma non riuscivo a comprendere come qualche chilo di troppo o la passione per Kafka e Dostoevskij potesse fare di me un emarginato.
Iniziai a leggere di nascosto, a non parlare più, soprattutto a non mangiare: volevo soltanto che gli altri provassero un po’ di affetto per me, così come ne provavo per loro. Le cose intorno non mutarono, mentre io non ero più lo stesso. Mi avevano insegnato ad odiarmi, ed io avevo imparato. Ancora oggi provo molta rabbia quando sento qualcuno affermare che l’anoressia è una scelta, che per uscirne basta un po’ di volontà: la società ti spinge ad ammalarti e poi ti condanna. I disturbi alimentari fanno male anche per questo. C’è poca informazione, poco interesse, la gente non sa di cosa si tratta e cade in stereotipi banali.
Per un ragazzo soffrire di anoressia è addirittura peggio, perfino i medici a volte non sanno come trattarti e non tutte le cliniche accettano di prenderti in cura. Ci si ammala per solitudine, per
è un cane che si morde la coda. Quante ore ho trascorso davanti allo
specchio a cercare di strapparmi via la pelle a mani nude, a provare a nasconderla; quante ore ho passato a correre per smaltire del cibo che nemmeno avevo ingurgitato; quante menzogne alla famiglia e agli amici, quei pochi rimasti, soltanto per poter saltare il pranzo. L’anoressia fagocita l’intera giornata, la monopolizza, è un pensiero costante che non ti lascia un secondo di pace. Ed è orribile, quanto frustrante, accorgersi di non essere più padroni di se stessi e delle proprie azioni, veder scivolare la vita verso una direzione che ti sembra di non poter cambiare. Si arriva a un punto in cui la stanchezza supera qualsiasi altro sentimento ed emozione: ti senti esausto, demoralizzato, senza più prospettive di futuro. E’ in quel momento che si aprono due prospettive opposte, quali uscirne o abbandonarti totalmente alla malattia.
Io non saprei dire in che modo ne sono uscito,a volte mi sento quasi miracolato. Delle persone che ho conosciuto nei miei vari percorsi ospedalieri, praticamente tutte donne, sono l’unico ad aver trovato la strada della guarigione: questo da un lato mi rende fiero, ma dall’altro mi spaventa e in qualche strano modo ferisce. Spesso mi immagino come sarebbe la vita delle mie compagne se solo anche loro trovassero di nuovo la tranquillità perduta, quella che basta a volersi bene.
Ci sarebbe moltissimo da dire o raccontare, del resto anni di conflitti non si possono riassumere in poche parole. Quel che so è che sono grato alla vita di tutto ciò che mi ha dato, dalle gioie ai dolori. Ho imparato molto da questa esperienza e ho avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose, tanto da convincermi che certi mali colpiscono soltanto laddove c’è una certa sensibilità di fondo.
Da quando ho imparato ad avere occhi molte cose sono cambiate: è un po’ come allargare la visuale, usare più colori, riconoscere tutti i sentimenti allegri e disperati. Alla fine, inaspettatamente, ho scoperto che la vita ha un sapore delicato.
Francesca
Gli sguardi della gente si posano su di me mentre cammino per strada.
Passo dopo passo, un piede avanti all’altro, mi avvicino alla meta, mentre il mondo mi osserva.
Osserva e giudica, perché purtroppo dietro a un semplice sguardo si celano milioni di parole e pensieri inespressi. Prima quella sensazione mi schiacciava nel mio peso già esile e mi costringeva ad abbassare lo sguardo, a chiudermi in me stessa, quasi come se mi sentissi in colpa per il corpo che porto in giro.
A volte mi rifugiavo nella mia mente per proteggermi da occhi indiscreti e da dita che indicandomi mi mettevano in soggezione; un fenomeno da baraccone, ecco come mi sono sentita negli ultimi mesi.
Un essere alieno, catapultato senza motivo in un mondo che non conosce e non capisce; o forse sono gli altri gli alieni che non riescono a comprendere me. Che presunzione, credere di poter gestire tutto e tutti, di essere sempre in grado di trovare una soluzione a qualsiasi problema; voler cambiare questo universo storto, come se gli errori del genere umano dipendessero solo da me.
Non può un granello di sabbia creare una tempesta dal nulla, sconvolgere un sistema imperniato su ideali sbagliati. Mi sono riempita la pancia di rabbia,fino a credere di essere sazia e di non avere bisogno di cibo vero.
Per ogni cosa che mi infastidiva, organizzavo una protesta silenziosa basata su ciò che mettevo nel mio piatto. Più ero irritata, più il piatto era vuoto, mentre la mia pancia urlava odio e dolore. I motivi ancora sto cercando di capirli. Gli abiti che mi erano stati cuciti addosso avevano iniziato a starmi stretti, ma nonostante la mia crescita, mi sforzavo di rimanerci dentro in qualsiasi modo, fino a contorcermi nelle più assurde e inumane posizioni.
Mi mordevo la lingua ogni volta che il mio pensiero si scontrava con quello degli altri, e facevo uscire dalla mia bocca solo parole accondiscendenti, per mantenere un equilibrio stabile in ogni
relazione, come se la minima contraddizione fosse in grado di distruggere ogni forma di affetto.
Mi impegnavo a rispettare sempre gli altri, ma non mi accorgevo che per fare ciò, la prima che non rispettavo era me stessa. I problemi altrui erano sempre più importanti, i miei non contavano. Potevo caricarmi ddei loro pesi, mentre già faticavo a portare i miei, poiché non mi davo mai il permesso di chiedere aiuto. Alla fine sono rimasta schiacciata.
Mi sono appiattita sotto questa tremenda e insostenibile pressione. Sono scomparsa. I miei occhi avevano smesso di brillare, poiché perfino la loro luce era diventata troppo debole. E più la vista si annebbiava, più i sensi si spegnevano, riducendomi a un guscio freddo e vuoto. Non più ero capace di esprimere emozioni, niente mi toccava e nessuno riusciva più a smuovere il mondo arido che si era creato dentro di me.
Poi qualcosa è cambiato. La mia mano si è alzata, si è aggrappata all’aiuto che mi è stato dato da persone che davvero mi vogliono bene. Persone che io ho fatto soffrire, senza consapevolezza, poiché il mio cervello era spento, chiuso dentro una scatola insonorizzata che mi separava dalla realtà.
Adesso quegli sguardi che si posano su di me mentre cammino non riescono più a schiacciarmi, hanno perso la loro potenza. No, loro non hanno perso potenza, sono io che sono diventata più forte. Tanto forte da sostenere il peso di occhi e gesti che prima mi uccidevano. Un passo dietro l’altro, alzo la testa e mi sento fiera.
Ho un problema, ma sto lottando. Lotto per cambiare tutto ciò che mi ha quasi portata a distruggermi. Non posso cambiare l’universo, ma posso cambiare il mio mondo, fino a renderlo migliore. Ho strappato i vestiti che portavo e li sto ricucendo su misura, per starci più comoda. Non sarà semplice come lavoro, ma non mi farò scoraggiare dalla paura.
Alla fine di questo restauro, avrò creato un’opera d’arte.
Celeste
Chiedermi cosa provassero i miei genitori, durante la mi malattia, mi ha sempre provocato un gran dolore. A tutto ciò che già stavo provando di negativo si aggiungeva l’immenso senso di colpa verso di loro, che mi vedevano distruggermi pian piano. Io non potevo fare altrimenti. Non vedevo altre vie possibili se non quella dettata dall’anoressia e pensare a loro, al loro senso di impotenza, mi faceva provare un misto tra onnipotenza e senso di colpa. Dal senso di colpa si rigeneravano miliardi di motivi per cui dare potere alla malattia, per cui punirmi e poi, di nuovo, sentirmi potente, controllante, forte ma anche estremamente cattiva. La cattiveria, però, non mi è mai appartenuta e questo dava foga a quella estenuante guerra, che c’era dentro di me.
Quando mia madre iniziò a preoccuparsi per la mia salute, io non avevo ancora minimamente immaginato la possibilità di avvicinarmi a un disturbo alimentare. Lei però si, lo aveva già capito. Ricordo bene gli sguardi di paura, disperazione e perdizione, che scorgevo dietro i volti dei miei genitori. Ricordo che una sera d’inverno mio padre urlò stremato: “Quando i problemi non ci sono ci se li deve andare a cercare!”. Non dimenticherò mai quella frase anche se, con gli anni poi, mio padre ha cambiato approccio ed ha sfruttato l’occasione per imparare a gestire meglio le sue emozioni, capire di più, allargare la prospettiva, avvicinarsi più dolcemente a me e alla vita in generale.
All’inizio del mio, del nostro percorso, non fu facile trovare un punto d’appiglio. Mia madre rivoltò il mondo per cercare aiuto. Non è stato facile ammettere di avere un problema, non lo è stato sopportare i giudizi della gente, non lo è stato approdare in un mondo sconosciuto ed imparare a conoscere una persona nuova: una figlia nuova. Non è stato facile.
mancanza di comunicazione, poi la patologia ti rende ancora più solo: Credo fermamente che i miei genitori sono stati ammirevoli durante i miei lunghi anni di cura. Il loro essere ammirabili è nato quando hanno accettato la sconfitta, l’eventualità di aver detto o fatto qualcosa di storto, l’imprevedibilità della vita, l’alterità della figlia che loro stessi hanno generato, l’occorrenza di prendersi più cura dello stato e del comportamento emotivo della famiglia intera.
Sono passati nove anni da quando arrivammo al Centro Arianna e, adesso, posso dire con fiera certezza che il mio percorso non è stato solo il mio ma anche il loro.
Lo posso dire senza gelosia e penso che sia stato lì uno dei punti di svolta più importanti: sentire che per loro non ero sbagliata, che comprendevano di passo in passo, sempre di più, la necessità di curarsi, nel senso di dedicarsi cure e carezze, che non facevano muro alla malattia ma volevano comprenderla.
Il dolore di veder soffrire la propria figlia, di non saperla o poterla aiutare, di non sapere cosa e come fare. La paura di perdere quella figlia, di vedere in faccia la malattia, che mostra crudelmente qualcosa che è andato storto, e la paura di mettersi in gioco come persone, prima che come genitori.
Prendere atto del problema e avere la forza di scavare a fondo per trovare la fonte del problema.
Mettersi in gioco fin dove si sente che si può.
Metterci fiducia, speranza, impegno.
Metterci amore.
Marta
In 2 foto ci sono 2 anni di distanza, ci sono chili di differenza certo ma quelli sono la cosa meno importante. Ci sono 2 anni di ospedali, di lacrime, urla, estati passate rinchiuse in casa e inverni senza andare a scuola, medici, psicologi e chi più ne ha più ne metta. Una grande sofferenza che mi ha portato a non fregarmene più della mia vita e delle persone che avevo intorno, mi interessava solo il mio corpo, senza capire che il dimagrire era solo un modo per mascherare il dolore.
Chi non c’è passata non può capire cosa vuol dire ‘vivere’ così…bugie dette per saltare i pasti, cibo nella spazzatura, ore ed ore di corsa, capelli persi, freddo costante, abbuffate, vomito, salire sulla bilancia mille volte al giorno ed essere ossessionati da quel numero… Questa malattia mi ha tolto tante troppe cose, opportunità e persone e io ho continuato a darle ascolto finché arrivi a un certo punto che capisci quanto stai andando a fondo inizi a riflettere su quanto ti stai facendo del male e che forse è il momento di rialzarsi…
Eppure non c’è la fai, lei è sempre lì che ti tira e non ti lascia andare, e pensi che non ne uscirai mai, che questo dolore non avrà mai una fine. Si punta ad alleviare il sintomo ad imparare a convivere con la malattia più che a guarire.
Guarire non significa ‘ingrassare’ come tanti pensano, guarire significa stravolgere la propria vita, il controllo e le certezze che credevamo di avere grazie alla malattia, significa aprire gli occhi e capire che l importante nella vita non è solo l estetica, significa lasciarsi andare e vedere cosa ci riserva la vita e godersela. Possono sembrare cose scontate ma per chi nella testa ha posto solo per il cibo tutto il resto non esiste. E ti senti onnipotente, credi di poter smettere quando vuoi e fermare tutto, ma non è così.
Per uscire dall’ anoressia ci vuole molta più forza di volontà che per rimanerci dentro, si è talmente abituate che fa paura l’ idea
della propria vita senza la malattia.
Non se ne esce da sole.
Si pensa che il mondo esterno non è pronto a capirti e aiutarti ma non è sempre così. Ci vogliono mani e e aiuti che ti tirano su e ti fanno vedere cosa c’è al di fuori della tua ‘bolla’. Molte persone sopravvalutano quanto un semplice commento, un ‘stai meglio’ possano scatenare in una persona miliardi di paranoie, passi indietro, far riaffiorare pensieri perché il segno di questa malattia è come una cicatrice, rimane lì e si ripresenta nei momenti brutti.
E la parte più difficile è proprio quando gli altri credano che vada tutto bene perché sembri sana ma non sanno che dentro la voce c’è sempre. Non succede tutto così di botto, è come una scalata ogni giorno piano piano si riconquistano delle cose, si raggiungono degli obiettivi e si ri-impara a vivere.
Non mi reputo guarita ma sono consapevole che ho fatto enormi passi avanti e so che continuerò a farli, mi sto riprendendo in mano la mia vita e voglio recuperare tutto ciò che ho perso.
Scrivo questo perché voglio che passi il messaggio che nessuno decide di ammalarsi e che non è solo un capriccio, ma soprattutto che si può decidere di guarire.
Le cose importanti della vita sono altre, bisogna solo concedersi
di vincere.
Sara
Vorrei fartelo sapere, che ci sono, che sono sempre io anche se un po’ diversa, anche se cambiata.
Che mi dimentico ancora la chiavi nella serratura quando rientro a casa la sera.
Che adesso riesco a camminare per strada anche senza un filo di trucco e con ancora un po’ di luce negli occhi.
Che ho la vita strabocca di persone che dicono di volermi bene ma poche, pochissime di queste sono pronte a dimostrarmelo.
Che ancora mi si chiude lo stomaco se l’ansia si trasforma in paura.
Che però ho imparato a mettere in ordine la camera senza che nessuno me lo chieda e la mente quando qualcuno si diverte a girarla sotto sopra.
Che piango ancora la notte e che ancora mi commuovo a vedere i miei due uomini ridere.
Vorrei fartelo sapere che le mie giornate sono pese come il piombo e che a momenti mi sembra di non sostenere più il peso.
Che questo teatro, questa commedia, non mi fa più ridere.
Mi piacerebbe dirtelo, anche se non sei qui, in qualche modo faccio.
Che da quando non ci sei più, pure io mi manco.
Che Lei è sempre con me e non mi abbandona mai.
La tengo per mano con la sicurezza che anche se non ti osservo e ricordo solo il ritmo del tuo respiro ti porto nel cuore.